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Diario

Ninna nanna della guerra

By 21 Ottobre 2025 No Comments

Sono stata una cameriera, una hostess, l’assistente di un pittore, ho lavorato come cubista, ho gestito un ristorante, ho fatto volantinaggio, sono stata un’animatrice, ho lavorato come modella, ho pulito delle case, sono stata una guida turistica, un’educatrice per ragazzi disabili, un’ ”acchiappina” -la figura che si trova davanti ai ristoranti e invita i passanti a fermarsi a mangiare-, ho cambiato 17 case e 3 città. Non ho trovato il lavoro della vita, ma ho scoperto di essere brava a fare traslochi.

Credo che non basti una vita per fare una cosa fatta bene.

E allora come si fa a sceglierne una, una soltanto, e portarla fino in fondo “per sempre”?

Ricordo tutto di quella mattina d’attesa prima del mio turno. Stavo aspettando fuori dalla porta del teatro insieme ad altri volti, alcuni dei quali sono diventati a me cari e familiari. Dopo varie entrate ed uscite di altri candidati, arriva il coordinatore didattico che ci invita ad assistere ai provini.

In brevissimo tempo ognuno di noi aveva preso posto in platea.

Ho un’immagine fissa che mi porterò sempre dietro: un ragazzo, che è diventato mio compagno e amico, ha recitato una poesia,

“Ninna nanna della guerra” di Trilussa, e il coordinatore gli ha chiesto di dirla rivolto a un neonato che cullava tenendolo tra le braccia. Il mio compagno non aveva nulla con sé, allora il coordinatore ha preso una coperta, l’ha avvolta come se stesse coprendo un bambino e ha iniziato a cullarlo. La delicatezza e l’accortezza con cui ha passato il “neonato” al ragazzo e gli ha detto: ”Fai attenzione, sta dormendo”, mi hanno fatto vedere quel bambino, appena nato, in carne ed ossa. Era lì davanti a noi. Sentivo il suo respiro.

La recitazione ti invita ad entrare in uno spazio ben più vasto dello spazio scenico, uno spazio nel quale sei chiamato ad esserci.

In questo primo anno ho ricevuto un insegnamento che si basa, prima di tutto, sulla capacità di essere degli “esseri umani”. L’attore deve, per natura, aprirsi al mondo, entrare nella psicologia del personaggio che andrà ad interpretare, non giudicarlo, e dunque empatizzare con esso.

Ma questo non può avvenire solo su un palco o su un set, sarebbe troppo misero per un attore – che è in primis un “essere umano” – limitarsi ad empatizzare in scena.

E’ necessario che ciò accada anche nel mondo che ci circonda, per rendere vivi i vivi e dar voce ai morti.

Ormai più di cento anni fa Antonio Gramsci scriveva: “Vivere significa partecipare e non essere indifferenti a quello che succede”. E’ passato più di un secolo, ma sembra sempre oggi.

R. II anno